La Roma di Zola
Stefano Marcelli
Sono straordinariamente penetranti le pagine del diario tenuto da Émile Zola durante le cinque settimane trascorse a Roma nell’autunno del 1894. Arrivato alla stazione Termini la mattina del 31 ottobre, il caposcuola del Naturalismo si immerse anima e corpo, nonostante i numerosi impegni ufficiali dovuti alla sua grande fama (tra cui un’udienza privata presso il re Umberto I e la regina Margherita), nel “paesaggio locale” della Città Eterna, cercando ispirazione per il suo nuovo attesissimo romanzo: Roma. Come ha sagacemente suggerito Emanuele Trevi, riferendosi alle descrizioni contenute in quest’opera (ovviamente basate sulle pagine del diario di viaggio), ci si trova letteralmente calati all’interno di «una mostra di vecchi dagherrotipi, capaci di custodire, con nitidezza di contorni e forza evocativa, un’immagine del passato credibile e concreta come solo i grandi artisti sono capaci di regalare». Folgoranti sono allora già le prime righe delle “impressioni” capitoline di Zola, dense della sua incredibile capacità di restituire, con una forza al contempo realistica e visionaria, il pulsare della vita dei luoghi: Sono arrivato questa mattina alle sette, dopo aver attraversato la campagna romana all’alba. Una grande desolazione. Greggi intraviste nella nebbia. Terreni tristi dall’erba rada. Qualche costruzione dalle tegole giallastre, che mi ha ricordato il Midi. Fattorie tristi e bruciate. Il deserto. Una prima corsa, passando, al Campidoglio. Il Marco Aurelio superbo, forte e potente. Vista del Foro, piccolo e grigio. Di qui al Corso: sensazione di strettezza. La nostra rue Saint-Honoré. I palazzi, grandi masse quadrate, nudi e tristi dal di fuori, con il loro intonaco di un giallo rossastro. Ma all’interno si sente l’immensità: da vedere. Nel pomeriggio grande corsa attraverso Roma, per un primo colpo d’occhio. Mi tornano alla mente Genova e Aix. Molta grandezza, ma sparsa e triste. L’orrore nauseabondo dei vecchi quartieri. La biancheria alle finestre, appesa ad una corda tenuta scostata dal muro da un bastone. Interi bucati, lunghi drappi che pendono, camicie, biancheria bianca, poi l’accozzaglia della biancheria colorata. L’odore misto d’olio rancido e di miseria. I panni stesi al sole e l’odore “di miseria”: gli occhi e il naso sono le finestre del corpo attraverso cui penetra nel lettore la Roma di quel 31 ottobre del 1894. Due sono i luoghi romani di cui meglio di altri il grande scrittore francese riesce a cogliere insieme l’essenza (l’aura) e le valenze di carattere storico, sociale ed antropologico, grazie alla sua straordinaria capacità di osservazione (resa mimetica di un ambiente, di un’atmosfera) e di penetrazione (scandaglio ermeneutico, analisi) dei “paesaggi umani” contemporanei: San Pietro e il nuovo quartiere “italiano”, i Prati di Castello. Entrambi i luoghi sono pregni di valenze simboliche, incarnando ciascuno una delle due anime della città, quella antica di sede ecumenica del papato, fulcro della Chiesa cattolica e quella recente di capitale della giovane nazione italiana. Scrive Zola a proposito della sua visita (1° novembre) all’interno della mastodontica e venerata basilica petrina: San Pietro, il giorno di Ognissanti. Cerimonia nella cappella del Coro. Dalla grande navata non si sentono nemmeno i canti. I cantanti della cappella Sistina, l’ammirevole voce femminile. La cappella inondata di sole, tendoni rossi insanguinati dai raggi. E la mia impressione dell’immensa navata, le braccia del transetto e dell’abside grandi come una delle nostre comuni chiese. Un salone di gala gigante, una sala dei passi perduti, un palazzo di ricevimento ciclopico. Le lastre di marmo sul pavimento, le colonne rivestite di marmo colorato, le volte con i cassettoni dorati, le tombe di marmo con le loro statue di marmo. Museo freddo e grandioso. I mosaici delle volte, tutti gli affreschi delle volte, pagani, romani, di una maestà smisurata e trionfale. Niente vetrate alle finestre. Ovunque finestre quadrate, dai vetri quadrati, da cui piove una luce bianca. Quelle di sinistra, colpite in pieno dal sole, lasciano ricadere grandi quadrati luminosi, che gettano proiezioni chiare sullo splendore del marmo. La polvere danza, gli ampi raggi attraversano la larghezza della navata inondandola di gloria. E non una sedia, l’immensa distesa di marmo vuota, deserta all’infinito. Un pavimento da museo, da palazzo. Nessun angolo per raccogliersi, non un angolino d’ombra in cui inginocchiarsi (le nostre cattedrali romane e gotiche). La luce cruda rischiara tutto. È un tempio pagano, elevato al dio della luce e della pompa. L’anima, con i suoi misteri, è assente. L’atavismo, la fede piombano sul colosso di gala. La statua di bronzo di san Pietro: alcuni ne strofinano l’alluce, lo baciano, ci posano la fronte, lo baciano di nuovo e lo puliscono. Altri lo baciano senza strofinarlo. La confessione, piccole lampade che ardono. L’elaboratissimo baldacchino, fuso nel bronzo preso al Pantheon. Confessionali per tutte le lingue, nel transetto di sinistra. Il prete attende, si cura delle anime, legge, scrive. Dopo la confessione, tocca con un lungo bastoncino. Le acquasantiere colossali, con i due angeli. Al romanziere di rango tuttavia non basta evocare il luogo visto e l’atmosfera respirata, come potrebbe fare qualsiasi turista mediamente colto che tenga un diario di viaggio; mentre cammina sotto la gigantesca cupola michelangiolesca Zola già si è calato nei panni del protagonista (Pierre Froment) del suo nuovo libro, già dipinge mentalmente lo sfondo concreto in cui farlo agire e già immagina le sensazioni, i pensieri e le riflessioni che gli attribuirà nella finzione narrativa: La mia idea: Pierre che entra un mattino e ascolta una messa mormorata in questa immensità. Non c’è nessuno, solo quattro o cinque turisti, il loro Baedeker alla mano. Significherà che le grandi cerimonie sono morte da quando Roma è capitale. Ci vogliono ottantamila persone per riempire la chiesa. Oggi, giorno di Ognissanti, i cinquecento presenti sembravano formiche nere smarrite. […] Le sensazioni di Pierre in questa grande sala d’opera, tanto chiara e attraversata dai brillanti raggi del sole, ma tanto vuota nella sua immensità, con il mormorio della piccola messa che vi farò svolgere. Quattro o cinque povere donne inginocchiate. Pierre che arriva con il ricordo delle nostre cattedrali romaniche o gotiche, con la loro statuaria emaciata del medioevo, tutta anima, in questa maestà, in questa pompa vuota e tutta materiale. Occorrerebbero tutte le magnificenze papali per riempirla, le grandi sfilate, i cortei che accompagnano il papa. Lo stesso giorno Zola visita anche il nuovo quartiere che sta sorgendo sulla riva destra del Tevere, proprio a due passi dal Vaticano: sarà uno dei simboli della Terza Roma, quella italiana dopo quella dei Cesari e dei Papi, ma anche luogo di vergognose speculazioni edilizie e finanziarie, come non manca di cogliere lo scrittore: I quartieri nuovi, soprattutto Prati di Castello. Vasti terreni su cui sono stati creati di botto progetti di quartieri. Vie a scacchiera, piazze. Grandi case quadrate, simili a caserme. Cinque piani. Alcune piatte come le facciate, ma in certi quartieri molto ornate, con colonnine, balconi, sculture. Altre, rientrate, più semplici, per la gente più povera. Si vede di tutto: terreni in cui sono state scavate fondamenta poi abbandonate, terreni su cui è ricresciuta l’erba, fino alle case finite, abitate. Case la cui costruzione è stata abbandonata al secondo piano, i pavimenti allo scoperto, le finestre sul vuoto, le pietre senza rivestimento. Case con il tetto ma simili a gabbie vuote, con pavimenti e finestre non rifiniti. Case terminate ma dalle persiane chiuse, completamente disabitate. Case abitate solo da una parte, il resto chiuso. Case infine completamente abitate, case superbe ma abitate dal popolino, la sporcizia che deborda dalle finestre, stracci che pendono dai balconcini scolpiti, puzza e miseria, donne spettinate, a malapena ricoperte da uno scialletto sporco, alle finestre. Tutta questa gente paga appena l’affitto. Mi dicono che alcuni si sono perfino installati in queste case come per diritto di conquista. Sono entrati e ce li hanno lasciati. E questi quartieri si trovano ovunque a Roma, ai Prati di Castello, sotto il Gianicolo, sui terreni di villa Ludovisi, fuori porta Pia, a San Lorenzo, vicino al Campo Verano, lungo la stazione, sul Viminale e l’Esquilino e anche altrove, vicino al monte Testaccio, credo (tutto da verificare). Ecco, grosso modo, la storia. Gli italiani padroni di Roma hanno voluto costruire la terza Roma, la grande capitale moderna dell’Italia. L’hanno annunciato, dichiarando il proprio orgoglio e il sangue d’Augusto. Si sarebbe dimostrato al papa quello che l’Italia unita poteva fare della capitale. Il tutto sarebbe stato realizzato in una ventina d’anni, dopo il 1875. Ma ad attivare ogni cosa c’era un’idea lucrosa, la speculazione sulla vendita dei terreni. Quello che si acquistava a cento soldi al metro si rivendeva a cento franchi. Un terreno era come un valore che passava di mano in mano: il tutto infiammato dall’orgoglio nazionale e dal lucro. Oltre che per il loro valore letterario, intrise come sono della consueta stupefacente capacità di restituire paesaggi e ambienti cogliendone l’intima pulsazione della vita, le pagine del diario romano di Zola sono dunque un documento degno del massimo interesse anche per la penetrante analisi storica che contengono: “orgoglio nazionale” e “lucro”, come definire meglio l’essenza della Roma di fine secolo?