Le due anime di Trastevere
Arianna Di Pietro
Quando l’abate Froment arriva a Roma dopo averla a lungo sognata, non può fare a meno di fermarsi in uno dei luoghi più visitati dai turisti: il Gianicolo, da cui ammira il panorama della città. Lo stesso impulso doveva aver colto Émile Zola, autore del romanzo, quando nel 1894 si era recato nella città eterna con l’intento di raccogliere materiale utile alla stesura del suo libro e di incontrare Leone XIII. Il Belvedere ai tempi non era la terrazza di fronte al monumento a Garibaldi – inaugurato l’anno successivo – bensì la balaustra di San Pietro in Montorio, il tempio eretto nel luogo in cui la leggenda vuole che il santo sia stato crocifisso e dove ai tempi, come scrive Zola, «[…] si assiepavano i turisti: inglesi smilzi, tedeschi tarchiati, tutti a bocca aperta dall’ammirazione, con in mano la loro guida che consultavano per riconoscere i monumenti». Ai piedi del giovane prete si stende la città antica e Trastevere, luogo storicamente molto frequentato nonostante la sua dislocazione periferica – poiché la città vera e propria si sviluppava sull’altra sponda del Tevere – e soprattutto luogo d’elezione per quanti non potevano risiedere nella città in quanto stranieri, indigenti o problematici. Come nel caso degli ebrei, che fin dal II a.C. stabiliscono proprio in Trastevere – nella zona tra piazza Sonnino e Porta Portese – la più antica comunità d’Europa, che vi si stanzierà fino allo spostamento forzato nel Ghetto che fu appositamente costruito da Paolo IV Carafa sull’altra sponda del fiume. Non a caso anche i primi cristiani troveranno in Trastevere un luogo di incontro ma anche di martirio: santa Cecilia, la giovane patrizia della famiglia degli Anicii, fervente animatrice della neonata religione, fu giustiziata proprio nelle terme della sua villa in Trastevere, dato che alle donne non era concesso l’onore di un’esecuzione pubblica. La basilica a lei dedicata sorge proprio nel luogo del martirio, dov’era la sua villa, a testimoniare la doppia anima del quartiere: da un lato zona popolare ai margini della città, dall’altro il luogo ideale per magnifiche residenze suburbane, che sfruttavano il favorevole microclima che si creava nell’area protetta dall’ansa del Tevere e dalle pendici del Gianicolo. Per queste caratteristiche climatiche nella zona di via della Lungara sorgevano quegli Horti – ville raffinatissime dotate di parchi immensi – che l’imperatore Settimio Severo donò all’amato secondogenito Geta per compensarlo dei lasciti destinati al primogenito Caracalla, e che dovevano interessare la stessa area dell’attuale Orto Botanico. È a causa di questo microclima, infatti, che oggi è possibile collezionare una gran varietà di specie vegetali provenienti da ambienti molto diversi tra loro. Il quartiere visse alterne vicende nel corso dei secoli: nel I sec. d.C. l’imperatore Traiano lo ritenne talmente importante da portarvi un acquedotto – poi distrutto durante le invasioni barbariche – ma con la caduta dell’impero d’Occidente Trastevere cadde gradatamente in rovina, e solo coi lavori di ripristino dell’approvvigionamento idrico –terminati con il restauro dell’acquedotto che porta il nome di Paolo V Borghese – e di riqualificazione dell’area con la ricostruzione dell’antica via Settimiana – oggi via della Lungara – e della strada gemella via Giulia, il quartiere ritornò a vivere. Queste due arterie, volute da Giulio II, dovevano costituire un tridente, con il Tevere al centro, che confluisse al Vaticano, il nuovo centro del potere papalino che, dopo l’abbandono del Laterano in seguito alla cattività avignonese, divenne motore della Renovatio Urbis, il grande movimento artistico di restaurazione della bellezza e della gloria di Roma, in cui furono protagonisti i migliori artisti del Rinascimento, del Manierismo e del Barocco. Così via della Lungara tornò a ospitare fastose “ville di campagna”, come Palazzo Corsini e l’antistante villa del banchiere Agostino Chigi, famoso per le sue feste e la sua munificenza. Si racconta che in segno di sprezzo del denaro egli gettasse nel Tevere le stoviglie d’argento usate durante i banchetti, salvo poi ripescarle subito dopo con apposite reti. La villa è oggi nota come Farnesina perché fu poi acquistata dai Farnese per fare pendant col palazzo che sorgeva proprio sulla sponda opposta del fiume, su via Giulia. Ed è proprio via Giulia, la strada così regolare e moderna da sembrare ancor oggi un’oasi di perfezione nell’intrico dei viottoli medievali circostanti, a ospitare l’abate Froment in arrivo a Roma. Con la sua bellezza e l’alternarsi di luci e ombre, mirabile metafora delle bellezze e delle bassezze che il giovane prete francese scoprirà nella città eterna, via Giulia e i suoi imponenti palazzi costituiscono lo sfondo dell’intera vicenda.